CRAC

CARNEVALE DEI MONTI LIGURI

di Guido Ferretti

Un vecchio proverbio recita: "L'Epifania tutte le feste porta via". Questo è vero, ma il giorno dopo ha inizio il periodo di carnevale, tempo di trasgressione e divertimento, ed anche per questo c'è un proverbio: "A carnevale ogni scherzo vale".
A proposito di carnevale vorrei ricordare non le grandi manifestazioni che si celebrano annualmente a Venezia, Viareggio o Rio de Janeiro, ma un carnevale di un paese dei monti liguri, dove, ancora nei recenti anni passati, si dava vita a tradizionali manifestazioni e usanze che forse ebbero origine da antichi riti pagani, riorganizzati in seguito, in funzione della religione cristiana e del suo calendario festivo.

Le maschere
Il periodo di carnevale era da poco cominciato e già in paese si parlava di maschere.
Le maschere giravano di sera camminando silenziose nella neve, andavano di casa in casa ed entravano improvvisamente nel mezzo della veglia. Si sentiva un trambusto, uno scalpiccio nell'ingresso, ed ecco, si apriva la porta della grande cucina affumicata ed apparivano le maschere.
I bambini, pallidi in viso, cercavano rifugio tra le braccia dei genitori; erano spaventati.
Quei personaggi strani, anche se si sapeva chi veramente potevano essere, mettevano paura.
Qualche volta le maschere erano numerose; i padroni di casa le facevano accomodare, ma raramente esse si sedevano, alle domande e ai complimenti rispondevano con gesti.
I loro costumi, sia maschili che femminili, erano improvvisati, fatti con vecchi abiti riscoperti in fondo ai bauli dei nonni. Avevano il viso coperto da un velo oppure portavano la maschera. Erano le solite maschere di legno costruite da Matteo, uomo poliedrico: suonatore di fisarmonica, pittore, incisore ed ottimo umorista. Esse raffiguravano l'effige della testa di animali, oppure la caricatura di noti personaggi del contado. Talvolta improvvisavano una piccola sceneggiata o una danza. La visita, quasi sempre, era breve: rimanendo più a lungo c'era il pericolo d'essere riconosciute.
Uscivano frettolosamente, salutando con gesti del capo e della mano.
Appena uscite, nella veglia si discuteva sulla loro identità, cercando di ricordare tutti i particolari per scoprire chi fossero realmente. Queste apparizioni serali duravano per tutto il periodo di carnevale.

La domenica grassa
Il carnevale periodo di gioia sfrenata, balli, mascherate e divertimenti vari, aveva il suo epilogo nel giorno della domenica grassa, giorno in cui a tavola vi era il tradizionale piatto di ravioli ed era festa grande per tutti.
Gruppi di maschere, provenienti anche dai paesi vicini, percorrevano le strade del villaggio e si fermavano sulla piazza principale dove, alla presenza di gran parte dei paesani, improvvisavano buffe scenette e danze al suono della fisarmonica.
Un caratteristico personaggio detto Pulaggiu, faceva parte della mascherata. Egli, vestito da contadino, con una grossa cesta appesa al braccio, si staccava dal gruppo e visitava tutte le case del paese, dove le massaie, tra scherzi e lazzi, gli ponevano nella cesta delle uova, in quantità più o meno grande secondo la loro disponibilità. Prima che terminasse il giorno, la cesta era piena e l'allegra brigata la portava in trattoria, in cambio del gran pranzo serale, che solitamente degenerava in baldoria, a cui partecipavano tutti i giovani del paese e si protraeva fino a tarda notte. Salvo poche eccezioni, il carnevale degli adulti finiva qui.
Nei rimanenti due giorni successivi i ragazzi del paese, unici protagonisti, davano vita alla loro manifestazione, tipica del luogo e forse unica.
Essi durante la mattinata della domenica grassa, con l'aiuto di qualche anziano volenteroso, costruivano un grande fantoccio di paglia, alto circa tre metri, con le braccia aperte come uno spaventapasseri e la faccia mascherata. Dal suo collo pendeva una lunga collana fatta con i gusci d'uova, usate per fare i ravioli, e portava in capo un vecchio logoro cappellaccio.
In paese si costruivano due fantocci, uno per rione. I ragazzi dei due quartieri facevano a gara tra loro per avere il fantoccio più alto. Il suo nome era "Carnevale".
Quando "Carnevale" era pronto "usciva" in strada e "cominciava a percorrere" le vie del paese in posizione eretta. 
Quattro ragazzi scelti fra i più robusti lo portavano a spalle come una statua, gli altri lo seguivano formando un codazzo e, suonando tutti insieme il campanaccio che tenevano a tracolla, davano origine a un rumoroso concerto. Queste sfilate duravano per tre giorni, fino a tutto il martedì successivo.
Quando, durante il giorno, i due gruppi si incontravano, spesso fra loro nascevano violente contese. Ognuno difendeva la propria sovranità territoriale. A volte per ristabilire la pace occorreva l'intervento degli adulti.
Durante la notte, "Carnevale" veniva, da ambo le parti, custodito con cura e ricoverato in luogo sicuro, onde evitare brutti scherzi da parte dell'opposta fazione.
La sera del martedì "Carnevale", portato ora in posizione orizzontale come se fosse già morto, saliva al luogo del supplizio dove, al calar della notte, veniva bruciato.
Tutte queste manifestazioni erano sempre accompagnate dal potente suono di un corno che echeggiava in tutta la vallata e dal fragoroso suonare dei campanacci.
I due carnevali venivano bruciati in luoghi diversi, contemporaneamente a quelli dei vicini villaggi di Vallescura e Barcaggio.
Forse sarà per puro caso, ma i quattro roghi che in quelle sere illuminavano il volto estasiato dei ragazzi erano geograficamente allineati e posti in posizioni dominanti la vallata.
Questi luoghi sono ancora oggi ricordati con i seguenti toponimi: a Pian-a, a Cappelletta da Riva, u Briccu de Carleva e u Custigieu da Suria.

A questo punto il carnevale era finito, cadevano le maschere e si ritornava alla realtà.
E' doveroso da parte mia rivelare il nome del paese tenutario delle tradizioni qui descritte.
Per chi non l'avesse ancora scoperto, si tratta di Casoni, frazione del comune di Fontanigorda, in Val Trebbia.
A Casoni queste antiche usanze vengono ancora ricordate, organizzando un ballo mascherato la sera del 25 agosto di ogni anno.


Filastrocca dialettale

Carlevà lè miezzu mattu
U se lasciuo caccia in-t-in saccu.
Din-tin saccu lè scappuo
Via a gambe u se ne anduo.
Carnevale è mezzo matto
Si è lasciato cacciare nel sacco.
Dal sacco è scappato
Via a gambe levate se ne è andato.


Articolo pubblicato sul n. 36 della rivista etno-antropologica "Il Nido d'Aquila".